Le prime descrizioni di questa patologia risalgono agli inizi dell’Ottocento, quando vennero descritti a Parigi e a Londra dei quadri clinici caratterizzati dall’insorgenza, in età postpuberale, di un netto cambiamento della personalità, dalla comparsa di profonde alterazioni dell’affettività e del pensiero e da un progressivo deterioramento comportamentale. Le conoscenze dell’epoca permettevano di distinguere unicamente tra psicosi organiche e psicosi funzionali. Le prime erano caratterizzate da “obnubilamento dello stato di coscienza”, mentre nelle seconde la coscienza rimaneva “lucida”. All’interno di queste ultime Kraepelin (1890) inserì la dementia praecox, distinguendola da un’altra sindrome, cui diede il nome di psicosi maniaco-depressiva, che non presentava deterioramento progressivo, bensì era caratterizzata da fasi alterne di melanconia e di eccitamento.
L’età di esordio, il decorso e l’esito negativo non erano tuttavia criteri sufficienti a identificare questa malattia. Spetta a Bleuler (1911) il merito di aver individuato un denominatore comune - da affiancare ai vari aspetti osservati nella demenza praecox - nella perdita di coesione strutturale della personalità e nella frattura e dissociazione di alcune funzioni psichiche. Al criterio evolutivo kraepeliano sostituì il proprio, definendola malattia dissociativa o schizofrenia. Ai sintomi già evidenziati ne aggiunse altri molto importanti che chiamò di base o fondamentali (perdita di volizione, deficit dell’attenzione, ambivalenza, autismo, appiattimento affettivo), cui potevano aggiungersi quelli non necessariamente presenti e che si ritrovavano anche in altre condizioni cliniche (disturbo maniaco-depressivo, delirium, demenza). Questi ultimi, derivabili dai primi, furono chiamati secondari o accessori (deliri, allucinazioni, variazioni dell’umore, alterazioni dello stato di coscienza, manifestazioni catatoniche).
Negli anni Ottanta alcuni studiosi avevano proposto una dicotomia tra “sintomi positivi” (presenza cioè di deliri, allucinazioni, pensiero ed eloquio disorganizzati) e “sintomi negativi” (deficit affettivo, ritiro sociale, ridotta fluenza e produzione verbale).
Come già detto, i sintomi positivi sono estranei alle esperienze normali, mentre quelli negativi sono associati a riduzione delle funzioni normali o a scarso funzionamento sociale. E’ interessante osservare come i sintomi cognitivi possano sovrapporsi a quelli negativi. Vanno inclusi specificamente il disturbo del pensiero e l’uso talvolta inadeguato del linguaggio, con manifestazioni di incoerenza, allentamento dei nessi associativi e neologismi. Difficoltà di memoria, di attenzione e compromissione dell’elaborazione delle informazioni sono altri specifici problemi cognitivi associati alla schizofrenia. Inoltre possono essere presenti difficoltà nella fluenza verbale (incapacità a produrre un discorso spontaneo), problemi con l’apprendimento seriale, difficoltà nella vigilanza e a livello di sistema attenzionale e di programmazione delle azioni. Tali deficit cognitivi si ripercuotono sul comportamento della persona, che risulta spesso sorda agli stimoli ambientali e alle aspettative di condotta sociale.
Benché le cause della schizofrenia non siano chiare, vi è un generale consenso intorno alla base organica. Vi sono evidenze scientifiche sia a livello genetico (ipotesi di anomalie nello sviluppo neuronale e neurodegenerative) che biologico. In particolare a carico del sistema dopaminergico. quest’ultimo ambito, il modello più accreditato è quello dopaminergico.
Altri studi, oltre ai fattori genetici e biologici, prendono in considerazione stili educativi famigliari e condizionamenti ambientali particolari intesi quali determinanti schizofrenogeni. In tale ottica si situa il modello stress-vulnerabilità (Zubin e Spring, 1977; Neuchterlein & Dawson, 1984), esplicativo della patogenesi anche di altri disturbi mentali.
Secondo tale modello, in alcune persone l’effetto della vulnerabilità genetica e bio-psicologica combinato con fattori stressanti fa sì che la persona superi la soglia individuale di adattamento bio-psico-sociale e favorisca la comparsa di sintomi del disturbo cui è vulnerabile. Non è tuttavia chiaro il meccanismo d’azione di questi fattori stressanti, anche se si è visto che è molto importante la modalità personale di attribuire significato agli eventi stessi e la percezione della propria capacità di farvi fronte. Infatti vi è un’enorme variabilità di risposte bio-fisiologiche, cognitive e comportamentali in individui sottoposti alla stessa fonte di stress. Probabilmente la risposta individuale allo stress è multideterminata: oltre ai fattori bio-genetici sono rilevanti quelli psicologici in cui confluiscono tratti di personalità, esperienze passate, abilità di fronteggiamento, capacità di anticipazione dell’evento.